Intervista a Massimo Roscia in libreria con “Peste e corna”, pronto soccorso contro le frasi fatte

06 marzo 2018

Massimo Roscia il 6 marzo torna in libreria con Peste e corna (Sperling & Kupfer, € 15,90), manuale semiserio contro le frasi fatte. Tustyle ha letto il libro in anteprima e lo ha intervistato per voi.

 

Chi non le ha mai usate scagli la prima pietra. Di che parliamo? Le frasi fatte: espressioni idiomatiche, metafore logore che hanno invaso ogni ambito. Ci piacciono perché sono immediate, chiunque le capisce, spesso non ci vengono in mente le parole giuste per esprimere al volo un concetto. Il burocratese ne abbonda, il giornalese ne abusa, in cucina sono uno degli ingredienti principali e nel meteo mietono più vittime dei nubifragi. A volte servono a dare colore al discorso o a rompere il ghiaccio, ma più spesso appiattiscono la comunicazione in un prevedibile ammasso trito e ritrito, con il risultato di parlare molto senza dire niente.

Nel suo nuovo libro Massimo Roscia, giocando con le parole come Flaiano e Campanile, si diverte a prendere in giro la nostra tendenza a usare formule stereotipate a ogni piè sospinto. E lo fa tramite la storia di Mario, un mite impiegato romano che, ovunque si volti, si imbatte nella quintessenza della banalità espressiva, fino ad avere il sospetto che a essere trita e ritrita non sia la lingua, ma le idee. Roscia torna a farci sorridere e riflettere sull’uso che facciamo dell’italiano e ci invita almeno a cercare un modo migliore per dire sempre le stesse cose.

“Anche se ci mancano le parole, dobbiamo usarle lo stesso”, diceva Samuel Beckett. Tu aggiungi: “Allora vediamo di usarle bene”. Credi che l’impoverimento del linguaggio corrisponda a un impoverimento di contenuti?
«La domanda – che, per esordire con una frase fatta, “sorge spontanea” – è più che legittima. L’uso di espressioni idiomatiche, luoghi comuni e metafore è del tutto naturale. Queste locuzioni, frequenti nella lingua comune, soprattutto in quella parlata, sono “parte integrante” delle nostre conversazioni quotidiane. Scandiscono il tempo, riflettono la nostra visione del mondo, caratterizzano la lingua donandole colore e vivacità e, se utilizzate in maniera appropriata, con consapevolezza e senso della misura, ci permettono di sfruttare appieno tutte le risorse espressive del nostro patrimonio linguistico. Il “campanello d’allarme” (ops!) scatta quando l’uso sfocia nell’abuso: le sequenze (plastificate) di parole (plastificate) ripetute meccanicamente e acriticamente si logorano, si svuotano di significato, si trasformano in inutili riempitivi verbali, scadono nella banalità, diventano insopportabili, appiattiscono il linguaggio e, con il tempo, impoveriscono anche i contenuti e anestetizzano il pensiero».

A cosa è dovuto, secondo te, questo “vilipendio” di una lingua bella e ricca come la nostra? Nuovi media, digitalizzazione, globalizzazione, scuola carente?
«Da diversi anni gli studiosi si interrogano sulle cause del degrado culturale e dell’impoverimento lessicale, tirando in ballo l’ambiente, la scuola, la famiglia, la televisione, il web, i nuovi media, la globalizzazione, il debito pubblico, il riscaldamento globale, il buco dell’ozono, l’innalzamento dei livelli dei mari, i Teletubbies… Io credo che tutto dipenda, più semplicemente, dall’amore. Abbiamo una scarsa considerazione della nostra magnifica lingua, la usiamo in maniera pigra, frettolosa, negligente, superficiale e passiva, non ce ne prendiamo cura. In poche parole, non l’amiamo come dovremmo».

Visto che è già stato detto tutto, troviamo almeno parole nuove per dirlo. Quali sono i rimedi secondo te, se ne esiste qualcuno?
«Basterebbe chiedersi, ogni tanto, da dove nascono le parole che usiamo; basterebbe sfogliare un libro o un dizionario per scoprire nuovi vocaboli; basterebbe interrogarsi non solo su ciò che diciamo, ma anche su come e perché lo diciamo. Basterebbe poco, davvero poco, per evitare, come scriveva Elio Vittorini, di diventare i posseduti e non i possessori del nostro linguaggio».

Sei più innamorato della grammatica o dell’ironia?
«Della grammatica ironica o, se preferisci, dell’ironia grammaticale».

Pensi di continuare, nei prossimi libri, questa tua mission (im)possible di salvaguardia della lingua italiana?
«Credo di no. Dopo aver fatto la mia parte, ho intenzione di misurarmi con altri generi letterari in cui non mi sono mai cimentato finora: poemi cavallereschi, poesie haiku, dimetri giambici, stornelli in romanesco, epicedi, bugiardini dei farmaci e scritte oscene nei bagni degli autogrill».

Eleonora Molisani @emolisani