Intervista ad Alessandro Milan, autore di “Mi vivi dentro”, storia di un amore infinito

15 marzo 2018

In Mi vivi dentro (DeA Planeta, € 17) Alessandro Milan racconta la storia di speranza, di amore e di attaccamento alla vita che lo ha legato alla moglie Wondy. Un inno alla resilienza, per ricordare la giornalista e scrittrice Francesca Del Rosso.

 

Dalla lettera pubblicata sui social in occasione della morte di sua moglie, che nel 2016 ha commosso il web con oltre 7 milioni di visualizzazioni, arriva Mi vivi dentro. Un memoir intenso, in cui Alessandro Milan, giornalista di Radio24, ripercorre la storia d’amore tra lui e Francesca-Wondy.

Francesca è bassina, impertinente, ha i capelli biondi e gli occhi blu. È una forza della natura, sempre allegra: per questo la chiamano Wondy, da Wonder Woman. Alessandro è scherzoso e un po’ goffo, si lascia travolgere da lei e dall’amore che presto li lega. Con lei impara a vivere pienamente ogni emozione, a viaggiare e a scoprire il mondo, a pensare sempre positivo, a non arretrare di fronte alle difficoltà. E così, insieme, con una forza di volontà che somiglia a un superpotere, si troveranno a combattere la più terribile delle battaglie, quella contro il cancro.

E dopo la lunga malattia e la morte di Francesca sono tante le cose che restano: i figli Angelica e Mattia, di 12 e 9 anni, un gatto, un bonsai, tanti amici e, soprattutto, una straordinaria capacità di assorbire gli urti senza rompersi. La vicenda di Alessandro e di Wondy ci ricorda che le storie più belle non hanno il lieto fine, semplicemente non finiscono mai.

Il romanzo è un inno alla resilienza, intesa come capacità di trasformare le difficoltà della vita in opportunità. Perché hai deciso raccontare la vostra storia?
«All’inizio pensavo di non voler scrivere nulla di lei e di noi. Poi ho pensato che per me e per i miei figli stava iniziando un percorso, e che avrei potuto scrivere di quel percorso perché il tempo mi ha permesso di guardare le cose con più lucidità, di avvertire il senso di irreversibilità di quello che era successo. Scrivere mi è servito, ho pianto tanto ma mi ha aiutato a capire quanto e che cosa ci ha lasciato Francesca. Volevo raccontare una storia di amore normale, non di beatificazione. Parlare degli alti e bassi di una coppia che si ama, che progetta, che discute e all’improvviso si ritrova, suo malgrado, ad affrontare una cosa più grande di lei».

Forse la frustrazione più grande per un essere umano è l’impotenza davanti alla sofferenza delle persone amate. La resilienza, in caso di gravi malattie, riguarda le vittime ma anche chi resiste accanto a loro, senza riuscire ad alleviare la pena?
«Stare accanto a un familiare che soffre ti annulla, psicologicamente e fisicamente; ti stravolge la vita. Ma è peggio per chi soffre, e Francesca è riuscita a essere più forte di noi e ad alleviare la nostra sofferenza. È stata lei a consolare me, mi ha dato una grande lezione su come affrontare il dolore, senza erigere muri che bloccano e non permettono di andare avanti. Alla fine ho deciso di abbracciare quella sofferenza, di farmi attraversare da lei e poi lasciare che Francesca rimanesse a vivere dentro di me. Il suo insegnamento ora vive in me, che ero una persona chiusa e ora mi sono aperta al mondo e non voglio smettere di progettare. Da qui il titolo del libro, Mi vivi dentro, che ho voluto anche come dedica sulla sua tomba».

Ai figli avere sempre detto la verità?
«Abbiamo sempre detto tutto, hanno visto tutto con loro occhi e oggi sono ragazzini sereni e parlano della loro madre ricordando le tante cose belle, come i viaggi, le feste, il suo sorriso, la sua gioia di vivere e la curiosità verso il mondo. Vogliono leggere i suoi libri e anche il mio, perché parla di noi. I bambini dimostrano di avere una resilienza rara e hanno il merito di farmi vedere le cose sempre in un’altra prospettiva, di riportarmi alla realtà, impedirmi di abbattermi. Sono le mie ali verso il futuro e ho promesso a Francesca che mi occuperò sempre di loro. Noi tre siamo ancora una famiglia, anche se ora abbiamo una forma nuova».

Hai qualche rimpianto?
«L’unico rimpianto è che non ci siamo mai parlati apertamente della consapevolezza della fine, se non in modo indiretto. Non abbiamo mai affrontato l’argomento a viso aperto, parlando di quello che stava succedendo e del dopo. Lo dico all’inizio del libro: “Io sapevo, tu sapevi, ma non ce lo siamo detto“. Forse io aspettavo che lo facesse lei e lei aspettava che fossi io. Ma non so se sarebbe stato meglio o peggio, quindi più che un rimpianto è una riflessione nata scrivendo il libro».

Alessandro Milan ha fondato l’Associazione Wondy sono io, per ricordare la moglie Francesca e diffondere la cultura della resilienza. Info sulle iniziative dell’associazione sul sito: wondysonoio.org.

Eleonora Molisani @emolisani

Foto di: Guido Leonardi