Ensi racconta il suo nuovo album “Rock Steady”

21 agosto 2014

È un tipo tosto, Ensi. Mito assoluto del freestyle made in Italy,  la sua capacità di rappare “improvvisando” è leggendaria, per non parlare del suo palmares di vittorie nelle gare di settore. Ensi poteva restare appollaiato sul suo trono di mago dello “stile libero”, e fregarsene di buttarsi nella mischia (piuttosto affollata ultimamente) del rap italiano. Invece il 2 settembre arriva Rock Steady, il suo primo disco con una major (la Warner), ma soprattutto un disco in cui vengono fuori le sue capacità di compositore.

«Rock Steady? Per me è come uno slogan: è la capacità di spaccare, nella musica e nella vita, ma al contempo di restare fedeli a se stessi e alle proprie scelte». Così esordisce quando gli chiediamo il perché di questo titolo (rocksteady è anche un genere musicale che nulla ha a che fare con l’hip hop, una sorta di costola dello ska). Una lunga chiacchierata, in cui Ensi, all’anagrafe Jari Vella, nato nel 1985 in provincia di Torino, ormai trapiantato a Milano, ci ha spiegato il perché di questo cambiamento di passo e  cosa c’è dietro a quella bellissima canzone d’amore che è Rocky e Adriana

Siamo di fronte alla versione 2.0 di Ensi? Possiamo parlare di un Ensi-cantautore?
«Spesso sento dire che i rapper sono i nuovi cantautori: il fatto è che il rap oggi rimane uno dei pochissimi, forse l’unico genere musicale, che parla in maniera così diretta alle persone, quindi il parallelismo ci può stare. Però io non amo definirmi così, e non perché io sia un talebano dell’hip hop, ma per rispetto ai cantautori: io non canto, io rappo. Però un cambiamento nel suo modo di fare musica c’è stato. In realtà già in Era tutto un sogno (album pubblicato nel 2012, ndr) si percepiva la differenza tra l’Ensi che fa freestyle e l’Ensi che scrive canzoni e le canta. Ho proseguito su quella strada ed è arrivato Rock Steady: il punto è che, quando improvvisi, risulta quasi impossibile tirare fuori dei concetti importanti, o molto intimi, perché non hai proprio la possibilità di riflettere su quello che dici. Però quando vivi delle situazioni importanti, cose che ti portano a voler tirar fuori i tuoi sentimenti, allora la scrittura diventa indispensabile».

Tipo in “Rocky e Adriana”? È una canzone d’amore autobiografica, o sbaglio?
«È la canzone d’amore più sentita che abbia mai scritto nella mia vita. Dopo otto anni che stavo con la mia attuale ragazza, è venuto fuori che non aveva mai visto il film Rocky. “Impossibile, le ho detto io, dobbiamo subito rimediare!”. E così le ho fatto vedere il primo film della serie. A metà, mi ha detto: “Ma Rocky e Adriana siamo noi”».

In che senso?
«Sono gli antivip, gli antidivi, ragazzi che non avevano nulla e da quel nulla hanno costruito qualcosa. Le persone oggi vogliono emulare le coppie famose, tipo Jay Z e Beyoncé, Kim Kardashian e Kanye West: noi non siamo così, noi ci sentiamo più come Rocky e Adriana, perché io sono un ragazzo cresciuto senza un soldo ma con un grande sogno. La mia compagna invece è una ragazza che ama gli animali più delle persone, perché le persone l’hanno sempre ferita».

Una dichiarazione d’amore in piena regola…
«Non ho timori a mostrare il mio lato umano, preferisco parlare di queste cose, come il rapporto con la mia ragazza, piuttosto che fare il pezzo dove racconto di nottate pazze con gli amici. Nelle mie canzoni parlo di quello che ho vissuto, di quello che vivo, non invento nulla. Sono io, nudo e crudo, senza filtri, può piacere o no, io naturalmente spero che piaccia».

Nel primo singolo, “Change” (con il featuring di Patrick Benifei dei Casino Royale), lei prova a dare dei consigli di vita. A chi si rivolge quando canta?
«I Public Enemy si auto-definivano la CNN dei poveri. Ora, io non mi sento un portavoce, però vorrei che le persone a cui piace la mia musica si sentano rappresentate da quello che dico. Quanto al pubblico, non saprei: raccolgo feedback da ragazzi di quartiere che vivono in difficoltà, ma anche da trentacinquenni sposati e con figli. Quando in Change canto “Il tempo è un bastardo, ma non siamo nati vecchi come Benjamin Button”, è un consiglio che potrebbe essere utile al ragazzo che lavora in un call center, a uno sportivo, a chiunque».

È un rap colto, il suo?
«Colto è uno che conosce tante cose, io parlo solo di quello che conosco, invece. Più che colto, lo definirei maturo».

Vista la carriera che ha fatto, si considera un ragazzo fortunato?
«Non credo nella fortuna, se non a quella di beccare il “gratta e vinci” giusto e portare a casa il malloppo. Credo nella perseveranza».

di Cristiana Gattoni