Faccia a faccia (semiserio) con Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler

20 marzo 2014

Se ti illudi di intervistare uno scrittore e ti ritrovi bombardata da una raffica di provocazioni, l’interlocutore non può che essere Massimiliano Parente, autore del romanzo Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler (Mondadori, € 15,30 su inMondadori; e-book € 9,99). 44 anni, toscano, al suo settimo romanzo, è l’autore più chiacchierato del momento; uno dei più letti e seguiti sui social. Ma partiamo dal principio. Premettendo che i principi, da qui in poi, saranno scientificamente scardinati, uno a uno.

Guidandoci attraverso un’epopea donchisciottesca di 400 pagine, che si conclude con una “terrible end”, Parente prende l’anticristo storico, Hitler, crea dalla sua costola un artistoide da strapazzo col sogno di sfondare, e partorisce Max Fontana. Per puro caso, e partendo solo dalle sue lucide allucinazioni, Max riesce a diventare davvero il più grande artista del mondo: più pop di Andy Warhol, più eccentrico di Salvador Dalì, più geniale di Marcel Duchamp. E da lì in poi comincia ad annullare, arbitrariamente, ogni confine tra oggetti comuni e opere d’arte, in un delirio creativo che sfida la morale pubblica e il giudizio dei critici. Le sue improbabili installazioni culminano nel Bottone dell’odio, marchingegno che permette di realizzare il gesto liberatorio per eccellenza: distruggere l’oggetto del proprio odio supremo. In pratica, “il paradosso della morte pensata dai vivi”.

Più che al confine tra etica ed estetica, il suo romanzo è un funambolismo tra amoralità e grande bruttezza. La forma più genuina di letteratura dev’essere politically scorrect?
«Uno dei limiti della cultura contemporanea è quello del buonismo a tutti i costi. Ma se guardiamo il mondo realisticamente, dobbiamo ammettere che non c’è niente di scontato o rassicurante. Io ho solo fatto dire a Max Fontana le verità che tanti di noi hanno dentro ma che nessuno ha il coraggio di manifestare apertamente. Questo libro è un attacco frontale e violento a tutte le illusioni, ai luoghi comuni collettivi. La realtà è terrificante, e denudarla brutalmente è l’atto di libertà estremo».

Non teme di essere identificato con un personaggio che – quasi nichilisticamente – se la prende con tutte le entità: umane, subumane e sovrumane?
«Ovviamente io non sono Max Fontana, anche se è difficile tracciare un confine tra la persona e il personaggio. Sicuramente ci sono tante cose di me in quello che scrivo e, se non fossi così provocatorio, il messaggio sarebbe meno efficace. Quello che contesto, spingendo al massimo comicità e paradosso, è un’epoca in cui l’unica preoccupazione sembra essere quella di diventare “famosi”. La gente dice di tenere alla privacy, poi posta 24 ore su 24 le foto personali sui social network, sogna di andare in tv, dialoga compulsivamente su twitter con interlocutori virtuali, come Max Fontana. Tutto e sempre alla ricerca spasmodica di conferme. I “retweet” e i “like” che diventano l’unica misura dell’autostima».

L’immagine della donna viene demolita. Per Max sono tutte puttane. E, quelle che in cambio di sesso chiedono amore o una relazione, sono le peggiori. Come si difende dall’accusa di becero maschilismo?
«Non faccio nessuna differenza tra uomini e donne. Per me sono tutti persone. Ma mi disturba un certo tipo di femminismo. Invece di lottare per le quote rosa, penso che le donne dovrebbero fare battaglie molto più serie, come quella sulla legge 40 e la fecondazione assistita, per esempio. E non mi piace il fatto che ormai, se fai un complimento a sfondo sessuale, vieni considerato alla stregua di uno stalker. Insomma: non sono maschilista ma neppure femminista. Il mio mondo ideale non prevede categorie di comportamento e di pensiero».

Lei è seguitissimo sui social network, richiesto nei talk show e dai media, ma dice di avere una vita abbastanza monotona. Letteratura e vita sono inconciliabili?
«Penso che o si vive, o si scrive. Per quanto mi riguarda la realtà è pura fiction, mentre la vita vera è nella letteratura. In pratica, la scrittura salva lo scrittore dalla fatica di vivere».

Scrive dall’età di 17 anni, a 28 ha pubblicato il suo primo romanzo. Ha sempre voluto diventare uno scrittore?
«Credo nel potere assoluto della parola. Le parole determinano la realtà, molto più di quanto si creda. Ma il mio rapporto con la scrittura è conflittuale, tutto nasce da un continuo corpo a corpo con le parole. All’inizio non è stato facile farsi pubblicare, perché non scrivo per compiacere le aspettative di chi legge; non credo nella letteratura che lascia il lettore “inalterato”. Penso che un libro debba colpire e produrre comunque un cambiamento. Deve stravolgere, scuotere, destabilizzare. Nel bene o nel male».
[foto: Matteo Rigamonti]

di Eleonora Molisani @NaturalBornRaW