Senza scarpe. Quando ci incontriamo a Cannes, dove ha fatto parte della giuria del Festival, l’icona del cinema hollywoodiano Nicole Kidman ha addosso un elegante tailleur nero di L’Wren Scott, ma niente ai piedi. E io non riesco a pensare ad altro. Perché è un contrasto estremamente intrigante, ma anche perché la bionda attrice è da poco testimonial di Jimmy Choo, stilista mito per chiunque ami décolletée & Co. «Una scelta anticonvenzionale come le sue ultime interpretazioni?» chiedo indicandole i piedi curati e sottili. «La normalità adesso non mi piace proprio» rivela sorridendo, «forse perché per molto tempo ho cercato di essere come gli altri volevano che fossi, di allinearmi a un modello che non mi apparteneva». Il pensiero corre al lungo matrimonio con Tom Cruise e al loro divorzio nel 2001. Cinque anni dopo, Nicole ha sposato il cantante country neozelandese Keith Urban, da cui ha avuto due figlie, Sunday Rose e Faith (di 5 e 3 anni). L’amore e la famiglia le hanno dato forza, stabilità, coraggio. «Ora posso tranquillamente abbracciare la mia parte ribelle» conferma, «e lasciarmi trasportare dal cuore, nella sfera privata come sul set». Cresce così la curiosità intorno a Stoker, il suo ultimo film, nelle sale dal 20 giugno: è uno psycho-thriller del visionario Park Chan-wook, in cui la Kidman è Evelyn Stoker, donna instabile che ha un difficile rapporto con la figlia adolescente (Mia Wasikowska). Quando, dopo la morte del marito, nelle loro vite si insinua l’ambiguo cognato (Matthew Goode), madre e figlia si ritrovano pedine di un gioco eroticamente omicida.
Che cosa l’ha attratta del personaggio di Evelyn?
«La sua complessa instabilità. Quando frequenti la scuola teatrale, le parti femminili, e in particolari quelle materne, sono sempre profonde, intense. Di solito quelle che ti propongono a Hollywood sono molto più superficiali. Con Stoker sono finalmente riuscita a interpretare un ruolo di madre davvero interessante».
Mia Wasikowska è australiana come lei. E probabilmente condivide le sue stesse titubanze degli inizi. Che consigli le ha dato?
«Ricordo come sia difficile imparare a muoversi in questo ambiente. Come fece con me Jane Campion (che l’ha diretta in Ritratto di signora del 1996, ndr), ho suggerito a Mia di proteggere il proprio talento e le ho fatto sapere che se ha bisogno può contare su di me. Farà una grande carriera. È una brava attrice, una ragazza con la testa sulle spalle e pure un’avida lettrice: sul set non si staccava da Cechov».
Sappiamo che anche a lei piace molto leggere. Che libro ha sul comodino?
«Wild di Cheryl Strayed. Parla di una donna che, in seguito alla morte della madre e alla fine del suo matrimonio, decide di attraversare l’America a piedi».
Diventerà un film: sarà il suo prossimo ruolo?
«No, io sono troppo vecchia (la protagonista ha meno di 30 anni, ndr) e poi i diritti cinematografici sono stati acquistati da Reese Witherspoon. Ma non mi rattristo: leggere il libro è già una bella esperienza».
Cosa ricorda, invece, dell’esperienza che ogni attore sogna di fare, cioè di quando vinse l’Oscar per The Hours?
«Era il 2003, stavo attraversando un periodo particolare e provai sensazioni contraddittorie. Da un lato ero euforica, dall’altro depressa».
Il motivo?
«Ero molto sola. Spesso il successo professionale enfatizza i vuoti e le insoddisfazioni sul piano privato. Proprio quello che è accaduto a me: il trionfo sullo schermo si specchiava nel fallimento della mia realtà».
Però adesso l’equilibrio tra pubblico e privato sembra perfetto.
«Diventare madre e avere una famiglia era il mio obiettivo. Vivere attraverso i personaggi era gratificante, ma non mi bastava più. Desideravo qualcuno con cui dividere ogni momento, presente e futuro. Ecco perché sono finita a Nashville, Tennessee. Io non avevo mai avuto una vera casa. Per anni ero passata da un luogo all’altro, come una zingara. È stato naturale fermarmi nella città di mio marito».
E le piace?
«Adoro la sua calma e la natura che la circonda. Noi viviamo nel centro di Nashville, ma abbiamo anche una fattoria e spesso affittiamo uno chalet a Smoky Mountain. La vita che conduciamo è semplice, serena. Non la cambierei per nulla al mondo».
Per girare Grace di Monaco, che noi vedremo a fine anno, ha vissuto alcuni mesi in Francia. È stato difficile stare lontana dalle bambine?
«Non eravamo lontane: le mie figlie stavano con me. Io voglio essere una madre presente. Quando mi viene proposto un lavoro ne parlo con Keith, valutiamo insieme i pro e i contro. Se c’è il rischio che lui o le bambine ne risentano, rinuncio. Ma senza drammi. Quello che desidero con più forza è che la mia famiglia stia bene».
Pare che fosse anche la priorità di Grace Kelly.
«Era una grande donna. Il film è interessante proprio perché parla di
lei dal punto di vista umano, emotivo. Ma lo sa che stavo per rinunciarci?».
Come mai?
«Perché il ruolo della principessa di Monaco, come molti altri che mi vengono proposti, mi stava causando un sacco di ansie. Volevo scappare».
Da che cosa?
«Da me stessa e dal timore di non essere all’altezza. Quando mi viene proposto un copione non posso fare a meno di pensare a tutte le attrici che credo siano molto più adatte di me. E mi spavento».
Ma per Grace di Monaco si è ricreduta.
«Più che altro ho dato retta alla mia agente, che non faceva che ripetermi: se ti ritiri ti fanno causa (ride)!».