Adrien Brody: io non recito, scappo

24 giugno 2022

Sostiene Adrien Brody che non ci sia via di fuga migliore che indossare i panni (e i problemi) di un personaggio in un film. Per dimenticare i propri guai e capire meglio chi sei

 

Ho riflettuto a lungo su come riuscire a spiegare ed esaltare allo stesso tempo la poliedricità di Adrien Brody, attore rispettato e amatissimo a Hollywood e addirittura osannato e glorificato da quella comunità cinematografica che ritiene requisito essenziale dell’essere artista-attore una completa e totale dedizione alla propria arte.

Lui, per fare qualche esempio, è il tipo di professionista che ha studiato a lungo l’uso della tastiera di un pianoforte per solfeggiare comme il faut Chopin ne Il Pianista (ruolo che lo rende il più giovane a vincere l’Oscar come miglior attore per l’interpretazione del pianista Władysław Szpilman). Ha studiato psicologia per meglio comprendere e aiutare Spike Lee nella realizzazione di Summer of SAM – Panico a New York e si è isolato completamente dal mondo per imparare l’arte del ventriloquio (per Harry Houdini). E, ancora, ha perso qualcosa come 30 chili (per il film The Jacket) sfiorando letteralmente quella linea sottile che ti divide fra pazzia e sanità mentale.

Adrien Brody: adesso interpreta un allenatore di basket

Ecco, forse questi esempi rendono l’idea del suo talento e della sua dedizione al lavoro. Oggi, dopo la partecipazione alla serie Succession nei panni del volubile investitore Josh Aaronson, è nel bellissimo dramma Winning Time: The Rise of the Lakers Dynasty, da qualche settimana su Sky, che racconta il decennio che fece dei Los Angeles Lakers la stella più luminosa del firmamento del basket mondiale. Lui interpreta il leggendario allenatore di basket Pat Riley, in un cast all star che conta anche J.C. Reilly, Jason Clarke e Sally Field.

Prima di tutto, Adrien Brody, tifoso di…?
«Non dei Lakers purtroppo. Essendo di New York, amo i Knicks. Per me esistono solo Knicks e Mets».

Cosa ti ha portato a questo progetto?
«Adam McKay, il genio dietro a Succession. Adam è un produttore che ammiro moltissimo, è stato un grande onore lavorare con lui! Vivendo a Los Angeles, e conoscendone la storia cestistica, ho intuito il grande potenziale di questa serie nel connettere feelings ed eventi che hanno cambiato questa città per sempre: al di là dei fan e del gioco in sé, ho letto fra le righe come i Lakers e Showtime (la rete che produce Succession, ndr) abbiano punti di connessione a livello storico, umano e sociale. Basti pensare alla fine della segregazione sportiva – in senso economico – degli atleti di colore, e ai personaggi che sono diventati autentiche icone dello sport, come Magic Earvin Johnson, Larry Bird, Pat Riley e Jerry Buss».

Come ti sei preparato per il ruolo?
«Dovendo raccontare una vicenda ambientata negli anni 80/90 c’era un sacco di materiale a cui attingere, è stato piuttosto facile. Ho letto anche i sette libri ispirazionali scritti da Pat Riley, e ho capito esattamente che tipo di persona era, la tenacia e l’assoluta fede nel lavoro di squadra e del ruolo di leader, anche se conditi da numerose insicurezze e paure. Dopotutto, Pat Riley è un uomo che ha dedicato l’intera vita a questo sport, sul campo e in panchina. Ha vinto ben dieci campionati NBA con Lakers e Miami e, come se non bastasse, ha pure introdotto l’eleganza italiana con i suoi abiti di Armani (ride, ndr) e la self confidence grazie al look alla Gordon Gekko, coi capelli impomatati all’indietro, trend che sono durati decenni e hanno definito un’epoca».

Si direbbe che recitare, oltre che un lavoro, per te è ispirazione, dedizione, verità assoluta, il raggiungimento un obiettivo.
«Più che altro per me è sempre stata una forma di fuga, un modo per evadere. È stato così da subito, quando a 17 anni sono andato alla LaGuardia High School of Music & Art and Performing Arts, avevo già le idee chiare su quello che facevo e volevo fare. Recitare è cercare di sfuggire a una vita ordinaria, che ti incatena a ruoli prefissati, insieme al desiderio che tutti noi abbiamo di fuggire da noi stessi, dalle nostre paure e dal nostro dolore. Per questo lo studio del personaggio, la pelle da indossare, le emozioni da provare sono come una droga per me, sensazioni irrinunciabili in qualsiasi ruolo. Trovo enorme libertà nell’essere un attore, nell’immergermi e nel cercare di perdere le mie preoccupazioni per occuparmi invece delle qualità di un’altra persona. Di solito sono attratto da personaggi che vivono momenti difficili: dà sollievo dalle mie lotte quotidiane. È la bellezza dell’arte, e la maggior parte degli artisti soffre per tutta la vita infondendo nel proprio lavoro quella sofferenza o usando la propria arte per superare il dolore».

Per questa serie hai dovuto trasferirti in California.
«Sì, amo moltissimo New York, ma devo ammettere che anche Los Angeles presenta ottimi punti di vivibilità umana che molti anni fa, quando abitavo qui, amavo e perseguivo: mi piace la differenza di razze e culture che si presentano nello spazio di pochi chilometri. Venice è così diversa da Santa Monica, che a sua volta è diversa da Pasadena, e via dicendo. Sapere di dover rimanere qui per diversi mesi mi ha fatto bene, mi ha portato ulteriori stimoli, nuovo slancio».

Ricordo qualche anno fa una tua mostra d’arte chiamata Hot Dogs, Hamburgers, and Handguns: hai ancora il fuoco per dipingere, per creare arte?
«Anni fa non avevo molte offerte come attore, e siccome odio stare con le mani in mano ho comprato a Los Angeles uno studio dove dipingere (sorride, ndr). È cominciata così la mia avventura di pittore, l’ho fatto per un lungo periodo perché dipingendo sfogavo la mia creatività in un’attività su cui avevo totale controllo. Ho ripreso da poco, anche se posso dire che essenzialmente mi diverto a sporcare tele: espressionismo misto a beats hip hop anni 90».

Di Roberto Croci – Foto Getty Images

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