Il 12 marzo esce il nuovo romanzo dello scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, L’ablazione (Bompiani), in cui il protagonista scopre di avere un tumore alla prostata. Il romanzo racconta le sue paure, le traversie mediche e come la sessualità si trasformi. «È una porta aperta sull’intimità maschile, l’ho scritto per infrangere un tabù» ci dice lo scrittore, che presenterà L’ablazione in anteprima alla 20esima edizione del festival Dedica (dall’8 al 22 marzo a Pordenone).
Scrive: Da quando non scopo più mi sento più libero. Una donna potrebbe dire lo stesso?
«Non so cosa direbbe una donna che non può più fare l’amore. Il mio personaggio si è sentito libero, preferisce vedere in questa impotenza qualcosa di positivo, perché non serve a nulla lamentarsi e piangere la propria sorte. Non fare più l’amore non corrisponde alla fine del mondo e della vita. Ci sono altri piaceri, altri modi di sentirsi felici. E poi non bisogna credere che tutti abbiano una sessualità appagnate e piena : esiste una miseria erotica assai diffusa, chiedetelo a una psicanalista, mi darà ragione».
Com’è un uomo che si dedica completamente alle donne?
«È un uomo che condiziona la sua vita in base a quanto frequenta le donne. È preso tutto il tempo a sedurle, conquistarle. È un essere angosciato, uno che ha paura della morte in maniera abnorme. Le donne lo lo rassicurano anche se lo maltrattano e lo fanno soffrire. Un seduttore non è mai completamente soddisfatto. Vuole sempre di più e di meglio. È faticoso e anche poco equilibrato».
Scrive : Da quando non faccio più l’amore mi accontento dei ricordi. Si accontenta o vive di?
«I ricordi diventano verso la fine della vita degli amici. Sono là e li convochi per non vedere la realtà, il presente. Domandiamo loro di farci rivivere la scena che ci aveva dato piacere. Certo, dà meno soddisfazione perché è come se fosse una sdoppiatura della realtà».
Cosa trasforma l’amore con la propria donna in un amore tenero in cui la sessualità viene superata? Quello con Catherine, scrive, era un amore raro, quieto e profondo.
«Possiamo rimpiazzare la sessualità con la tenerezza, l’amicizia, la complicità. Il moi personaggio andava altrove ad amare le donne. Ma è una questione di delicatezza e di rispetto: non bisogna umiliare chi si ama. Biosgna proteggerlo da ciò che potrebbe fargli male».
Nel libro torna più volte la metafora dell’atrio della stazione. Perché? Ce la spiega meglio? Perché non l’aeroporto?
«Le stazioni in Francia sono un luogo poco romantico, sono attraversate da correnti d’aria, inquinamento, da una forma di tristezza. L’aeroporto è più « sexy », è l’invito a un viaggio lontano. Si ha l’impressione che si andrà a fare degli incontri magnifici».
Pensa che un lettore ipocondriaco riuscirà ad andare fino in fondo?
«Sì, arriverà fino all’ultima pagina perché cerca elementi che confortano il suo essere malato. Sarà curioso e allo stesso tempo spaventato, leggerà e troverà che non parlo solo della malattia».
Oggi ci sono molti scrittori che scrivono della malattia. Condivisione o morbosità?
«La malattia va testimoniata. Il moi romanzo è stato scritto per abbattere un tabù, quello del cancro alla prostata. Ma è un libro destinato alle donne che apprenderanno molte cose sugli uomini. Dopo che è stato pubblicato, in Francia, ho ricevuto tantissime testimonianze di lettrici che mi ringraziavano per avere aperto questa porta sull’intimità maschile. È la prima volta, almeno in Francia, che questo tabù viene infranto, in maniera diretta e brutale».
Capitolo 16: “La vita senza”. Com’è?
«La « vita senza » è ancora Vita, Bisogna sapersi adattare e trovare nella vita ciò che nutre la speranza e la gioia».
di Paola Sara Battistioli