18 April 2016

Intervista a Claudio Santamaria… a un passo dal David

Claudio Santamaria arriva alla consegna dei David di Donatello (stasera alle 21 su Sky Cinema) forte di 16 nomination, di cui una, tutta sua, come miglior attore protagonista. Lo chiamavano Jeeg Robot, di Gabriele Mainetti, è senza dubbio uno dei film rivelazione del momento (torna in sala il 21 aprile, il consiglio è: non perdetelo) ed è una storia atipica, italiana di un supereroe: tutt’alro che elegante, senza physique du rôle e fidanzata bellissima. Un supereroe di Roma, periferia.

Un disadattato, sovrappeso, che vive di espedienti. Si chiama Enzo Ceccotti, è un ladruncolo ombroso e introverso che, caduto nel Tevere, entra in contatto con una sostanza radioattiva e si scopre dotato di strepitosi superpoteri. La sua carriera di fuorilegge potrebbe essere a una svolta, ma succedono due cose: il boss locale, lo Zingaro (Luca Marinelli, anche lui in nomination), è geloso della sua prestanza e gli dà il tormento, ma soprattutto Enzo si innamora. Di una ragazza borderline, problematica (Ilenia Pastorelli, nominata pure lei) che si convince che lui sia Jeeg Robot. «Per confrontarci con un genere così distante da noi dovevamo metterci un tocco diverso e abbiamo scelto la poesia» spiega Santamaria.

Enzo Ceccotti è molto più grasso di lei.
«Ero 100 chili, 20 sopra il mio peso normale. Il regista voleva un orso “fermo”, grosso. Questa è un’altra differenza con gli altri supereroi: Ceccotti non è figo e non ha una dimensione sociale, si fa gli affari suoi, all’italiana».

Dica la verità. Un bel film  da supereroe all’americana le farebbe gola?
«Chi non sogna un film così? Però sono convinto che questo Jeeg nel panorama italiano segni uno spartiacque. Dimostra che anche noi possiamo fare pellicole del genere ed essere credibili. Ci aggiungiamo una bella storia d’amore e li facciamo più poetici, non è male».

È un momento in cui non le manca il romanticismo. Anche la fiction di Raiuno   di cui era protagonista, È arrivata la felicità,  ha  avuto grande successo.
«E infatti stanno già lavorando al seguito. Perché era scritta bene, frizzante e affrontava il tema famiglia in modo moderno. C’era la coppia gay, la persona di colore perfettamente inserita. È questo lo scopo di chi scrive: essere contemporanei o dare suggestioni, aprire orizzonti. La famiglia è cambiata, solo la politica finge di non vederlo».

In quella fiction tirava su due figli da solo. Anche lei è un padre single. È difficile?
«In realtà mia figlia ha anche una madre con cui vivere. Certo, quando sta con me siamo soli io e lei. Ma ho imparato un sacco di trucchi, me la cavo».

Di quali trucchi parla?
«Fare il padre è il mestiere più difficile del mondo se non ci metti il divertimento. Il segreto è mantenersi adulti: alleggerire, ammorbidire. Quando Emma  fa i capricci la guardo e chiedo “Ma che stai facendo?” e lei ride».

Cosa dice Emma del suo lavoro?
«Ha visto poco. Certo non le mostrerò questo film, troppo splatter. E neanche quelli di impegno civile come Il venditore di medicine, ha solo 8 anni. Ecco, quello è un genere che in Italia viene un po’ snobbato, si pensa che alla gente non interessi, sbagliando».

La gente guarda solo  commedie?
«E non c’è niente di male, se sono fatte bene. La commedia è la nostra cifra, ci abbiamo campato per anni. Ma un po’ di Pasolini non guasta, quelli sono i film che restano».

Ne scriva uno lei, di film.
«Ne ho proprio voglia. Una storia noir ma ironica, come  Jeeg, dove il regista si diverte col pubblico. Spesso invece i registi sono un po’ spocchiosi: i film devono insegnare, non dare lezione».

Facciamo un gioco. Se lei fosse un supereroe, che farebbe?
«Vorrei i poteri di Superman, perché lui non li sa usare, è un po’ borghesuccio. Metterei su un isolotto i corrotti, a zappare. E a mia figlia regalerei un mondo migliore. Getterei tutte le armi nucleari nello spazio, aprirei la libreria vaticana, il mondo è pieno di misteri».

Com’è pragmatico. Un sogno più poetico?
«Obblighiamo i ragazzi allo studio della musica. Viviamo nella culla dell’arte e io a scuola ho imparato solo il do».

Elisabetta Sala