Manuale d’esilio in 35 lezioni (Bompiani, €17) è il diario semiserio di un intellettuale che fugge dalla guerra e deve ricominciare da zero. Ma è anche una cronaca dei dimenticati. Abbiamo intervistato l’autore, Velibor Colic, al Festival Letteratura di Mantova.
“Un uomo senza patria è un albero senza tronco, un uccello senza ali, un parassita, un numero in una statistica”. Manuale d’esilio in 35 lezioni, del poeta e scrittore bosniaco Velibor Colic, è un libro di tragica attualità, un grido d’aiuto intriso di amara ironia, una ballata della nostalgia.
“Ho 28 anni e arrivo a Rennes con un bagaglio di tre parole in croce: Jean, Paul e Sartre. Le mie madeline sono salsicce speziate, non ho l’aria di un poeta in esilio ma solo di un bifolco balcanico. Sono un esule, mi sento etereo e sepolto al tempo stesso, ho troppo accento e troppa guerra dentro, sono perennemente abitato dal mio freddo metafisico”.
L’autore, nato in Bosnia Erzegovina, racconta dei suoi studi in letteratura jugoslava a Zagabria, del lavoro come giornalista in una radio regionale, e dell’arruolamento nell’esercito bosniaco, fino alla diserzione nel 1992, alla cattura, e alla fuga verso la Francia. Non sarà per niente facile vivere da esule, senza permesso di soggiorno, senza casa né soldi, senza riuscire a comunicare con gli altri. Tra incontri singolari nel sottobosco dei migranti, in mezzo a ubriaconi, piccoli delinquenti e approfittatori, vivendo improbabili storie d’amore, il narratore resiste, sempre sorretto dall’amore per la letteratura, pur rendendosi conto di dover ricostruire la sua identità ripartendo da zero.
“Le persone come me sono fatte di carne e sangue, e di una fibra miracolosa che si chiama coraggio. Non serve neanche fare un elogio della mia follia. La mia follia è secca come un verbale, è ordinaria, prosaica. È la semplice somma di tutte le mie paure e le mie solitudini.”
Alla fine Velibor Colic riesce a pubblicare questo romanzo toccante, ma anche polemico e sarcastico, il cui sfondo è un’Europa cieca e indifferente ai nuovi apolidi.
“Sono un rifugiato, nudo come un verme sotto un cielo ostile. Per gli altri sono trasparente”. Come ci si sente quando si è costretti a lasciare la propria terra d’origine?
«La prima confusione che fanno molti è pensare: “Migrante uguale musulmano. Musulmano uguale pericoloso terrorista”. In più, ora che l’Europa non riesce più a gestire gli enormi flussi migratori, per la gente oltre a essere trasparenti, siamo diventati ingombranti. Ma la battaglia che tutti dovremmo combattere è quella di tornare ai valori su cui si fondano tutte le democrazie, l’Europa in primis: l’umanità e l’umanesimo. Dovremmo essere tutti liberi di esprimerci e di vivere la nostra vita liberamente. Dovremmo crescere tutti insieme, stranieri, profughi, migranti. Se non lo faremo, sarà una catastrofe».
Nel libro ci sono anche consigli pratici: da come riuscire a ottenere il permesso di soggiorno, a come fare la spesa spendendo poco, a come non farsi coinvolgere in risse e problemi di ordine pubblico, a come non ammalarsi. Sono ulteriori ostacoli, a cui spesso non si pensa…
«Come prima cosa l’esilio raccomanda di dosare la tua visibilità: meno sarai visibile, meno problemi avrai. E poi non potrai mai ammalarti, perché non hai diritto all’assistenza pubblica. Per quanto riguarda l’aspetto, per non essere guardato male, ti conviene “occidentalizzarti” prima possibile: rasarti la barba, cambiare taglio di capelli, vestirti in un certo modo. Insomma, devi impegnarti a diventare “il signor tutto il mondo”. Chi lascia la propria Patria riparte da sotto zero, quindi deve ritrovare la visibilità perduta, la “verticalità” di uomo. È un’arte ma anche una grande fatica. Io ero un intellettuale nel mio Paese ma in Francia improvvisamente sono diventato nulla, un mezzo uomo senza voce, perché la dignità di un essere umano comincia dalla lingua. Ero un uomo ombra, e passavo per un totale idiota, pur essendo un letterato. Quando ho imparato il francese finalmente l’orizzonte si è un po’ schiarito. Ho fatto bingo quando ho cominciato a capire e a farmi capire. Finalmente da mezzo uomo sono diventato “homo erectus”, un essere umano verticale. La lingua è stata la mia finestra sul mondo: ho ritrovato la verticalità e la dignità di un homo sapiens».
In un passaggio molto toccante del libro lei declina la parola solitudine in tutte le lingue del mondo, interpretando il sentimento di assenza e vuoto esistenziale di tutti i profughi, rifugiati, immigrati che ha incontrato sulla sua strada. E aggiunge: “Se imparerò il francese, il dolore non resterà per sempre nella mia lingua madre”. Pensa che sia compito degli intellettuali dare voce ai tanti che non ne hanno?
«Ne sono convinto. È facile prendere uno scrittore per un intellettuale, scriveva Gabriel Garcia Marquez, perché gli scrittori possiedono il dono della parola. Io con questo potere ho voluto dare parole a chi non ne ha. A chi è senza patria, senza proprietà, senza dignità e senza parole per gridarlo al mondo. Sono tutti lì i dimenticati, nelle nostre città e nelle nostre strade. Sono lì malgrado noi, e ci parlano. Ma preferiamo non ascoltarli, trattarli come uomini e donne invisibili».
Lei scrive: “La terra madre che è nella nostra testa non esiste più, è stata distrutta dalla guerra e dalla pulizia etnica”. E’ possibile continuare a scrivere dopo tanta morte e distruzione? E l’ironia aiuta?
«Abbiamo il diritto di esigere che la letteratura sia migliore del mondo che siamo costretti a vivere oggi. Una letteratura così è possibile, ma anche necessaria. È una sentinella coraggiosa che protegge le nostre fragili certezze. E l’ironia sì, aiuta a rendere la pillola meno amara. Purché non scada nel bieco e sterile cinismo».
All’inizio del libro lei parla del “freddo metafisico” che abita in lei, presente anche nell’anima di ogni esule. Ora che ha ritrovato il suo posto nel mondo avverte più calore?
«Il freddo metafisico di cui parlo è reale, ma anche metaforico. Per esempio è accettare come destino le logiche crudeli della geopolitica. Dobbiamo tornare a riconoscere i volti delle persone, cercare i loro sguardi, cercare un altro orizzonte. Dobbiamo andare a caccia di souvenir per un destino nuovo, cambiare nelle nostre vene l’acqua in vino. L’esilio è un’addizione di ombre, è una storia di assenza. Dunque, il freddo metafisico mi abita ancora tutti i giorni. Certo, ora è più accettabile, ma so che non mi abbandonerà mai».
“Ho la sensazione che balliamo tutti, dannati e folli, al confine tra l’est e l’ovest, portando come una corda tutte le nostre guerre sante, tutte le miserie del mondo e i nostri impronunciabili nomi”.
Non c’è lieto fine per Velibor Colic. E la sua poesia dei dimenticati, le sue parole crude e sfacciate, continuano a rimbombare dentro, dopo la lettura. A ricordare che i problemi non si risolvono solo perché non abbiamo tempo e voglia di pensare a nuove, possibili, più umane soluzioni.
Eleonora Molisani @emolisani
(foto: Ulf Andersen/Getty Images)