Giulio Ricciarelli, il regista italiano che ha conquistato la Germania
Il suo film, candidato agli Oscar per la Germania, è entrato nei nove titoli finalisti ma non nella cinquina delle nominations. Peccato: statuetta o no, Il labirinto del silenzio, appena uscito nelle sale, è un film appassionante, assolutamente da vedere, che fa luce sugli anni del dopoguerra. Ed è firmato da un italiano a noi ancora sconosciuto, cresciuto a Monaco di Baviera: Giulio Ricciarelli, 50enne milanese che ha fatto l’attore nei teatri e in varie fiction della tv tedesca, prima di iniziare a girare corti. Questa è la sua opera prima. «E per me è già un premio avere avuto attenzioni in tutto il mondo: il film uscirà in più di 120 Paesi e io ho viaggiato dall’Uruguay a Hong Kong per presentarlo» dice lui in perfetto italiano (con qualche incertezza ogni tanto).
È la storia, basata su fatti reali, di un giovane pubblico ministero che, nel 1958, si mette a cercare la verità su Auschwitz e sui membri delle SS rimasti impuniti. Molti vivono e lavorano indisturbati perfino nelle istituzioni, protetti come sono dal silenzio delle autorità e di una nazione che quegli orrori li vuole dimenticare. Saranno le sue indagini a rendere possibile il processo che, soltanto nel 1963, condanna alcuni dei colpevoli.
Che effetto le fa vedere il suo film uscire in Italia, dove non è ancora conosciuto?
«Sono felicissimo, perché l’Italia fa parte della mia storia famigliare e della mia identità. Mio padre è perugino, mia madre tedesca, sono cresciuto in Germania eppure sono sempre considerato italiano. Io stesso mi sento diviso: ho un’anima teutonica e un’anima latina».
Questa doppia impronta emerge anche nel suo film?
«Penso di sì. Ho cercato di essere preciso, teutonico, nella ricostruzione dei fatti, ma nel racconto ho messo tutta la mia passionalità. I tedeschi temono l’approccio emozionale, le opere cosiddette “arthouse” sono molto cerebrali. Ma io, sarà perché vengo dal teatro e so quanto la gente possa annoiarsi, cerco l’esatto opposto: per me un film dev’essere avvincente, deve coinvolgere per lasciare un segno profondo nel pubblico».
Quello che soprende di più, della storia, è il silenzio generale su Auschwitz: possibile che tanti tedeschi, alla fine degli anni 50, ancora non sapessero nulla di ciò che era successo?
«Ha stupito moltissimo anche me. A scuola io stesso ho sentito parlare tanto dell’Olocausto, ma in quegli anni era diverso. Tutti avevano paura di scoprire che nessuno era davvero innocente, che anche qualche suo familiare dei più stretti poteva aver commesso qualche crimine».
Lo stesso protagonista del film, e delle indagini, sembra cadere dalle nuvole.
«E anche oggi molta gente preferisce non sapere. Pensi che, dopo una proiezione, una signora è venuta da me commossa, raccotandomi di non aver mai aperto una cassetta di lettere e documenti di suo padre, per timore di scoprire che cosa aveva fatto durante la guerra».
Ci voleva un occhio “straniero” per raccontare questa vicenda?
«Io ho solo pensato che valeva la pena riportarla a galla: quel processo è stato importantissimo per la coscienza tedesca e, come insegna lo scrittore William Faulkner, il passato non è mai finito. E poi è una storia di coraggio, di chi ha cercato la verità e la giustizia».
In Italia ci verrebbe, a girare un film?
«E chi lo sa. Posso solo dire che ci torno spesso: ho una famiglia di quelle grandi e molto legate. Da bambino passavo le mie estati all’Elba, ora vado spesso a Procida. Mi ritrovo con i cugini. Compresa quella che, a 10 anni, mi ha insegnato a parlare meglio l’italiano».
Valeria Vignale @vavign