Michela Murgia

Intervista a Michela Murgia, che torna in libreria con “Stai zitta”

13 marzo 2021

Fattela una risata. Taci. Spaventi gli uomini. Il pregiudizio sulle donne passa anche per il linguaggio. Parola di Michela Murgia, autrice del libro: “Stai zitta, e altre nove frasi che non vogliamo sentire più”

 

Scrittrice, conduttrice radiofonica, drammaturga. Michela Murgia torna in libreria con Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più (Einaudi, € 13) per ricordare che, se si è donne, in Italia si muore anche di linguaggio. È una morte civile, ma non per questo fa meno male. O fa meno danni.

«Di tutte le cose che le donne possono fare, parlare è ancora considerata la più sovversiva. È anche con le parole che ci fanno sparire dai luoghi pubblici, dalle professioni, dai dibattiti e dalle notizie. Per ogni dislivello di diritti che le donne subiscono a causa del maschilismo, esiste un impianto verbale che lo sostiene e lo giustifica», dice l’autrice.

Questo libro, che si legge d’un fiato, è uno schiaffo per le coscienze, perché evidenzia il legame strettissimo e mortificante che esiste tra le ingiustizie che le donne vivono sulla loro pelle, e le parole che ci definiscono e ci accompagnano ogni giorno: a casa, per strada, nei luoghi di lavoro.

Michela Murgia, quali sono le frasi che fanno più danni alle donne?

«Ne ho citate nove, ma avrebbero potuto essere di più. In realtà accade ogni volta che facciamo un bel lavoro, ma ci chiedono prima se siamo mamme. Quando gli uomini ci spiegano in modo paternalistico qualcosa che sappiamo già; quando ci dicono di calmarci; farci una risata; scopare di piú; smetterla di provocarli esprimendo le nostre opinioni; sorridere. E, soprattutto, di stare zitte. Quando ho scritto questo libro sapevo che qualcuno avrebbe detto che non sono queste le battaglie che contano. Invece sottovalutare i nomi delle cose è l’errore peggiore di questo tempo. Il modo in cui nominiamo la realtà è quello con cui finiamo per abitarla. Ma il solo modo per riconoscere le parole giuste è guardare se fanno giustizia. Sbagliare nome vuol dire sbagliare approccio morale. E non capire più la differenza tra il bene che si vorrebbe, e il male che si finisce per fare».

L’idea del libro parte da una tua esperienza personale?

«Il libro parte dal video diventato virale in cui lo psichiatra Raffaele Morelli, durante una mia trasmissione radiofonica su Radio Capital, nel 2020, mi disse di stare zitta. Sono partita da quell’episodio perché non era una chiacchiera da bar o in famiglia, dove il registro talvolta può trascendere, ma una situazione pubblica, di lavoro. Spesso gli uomini in queste situazioni si sentono in diritto, con facilità, di ridurre la donna al silenzio. E il più delle volte accade senza conseguenze. Infatti molti, in quella circostanza, invece di prendersela con Morelli, dissero che “la Murgia lo aveva provocato”. Ogni volta che una donna esprime il proprio pensiero in modo determinato, per loro sta “provocando” l’uomo».

Poi c’è la famosa frase: «Ormai siete dappertutto».

«Dobbiamo mostrare, dati alla mano, che non è così. I numeri sono “politici”, e quando li analizzi raccontano la quasi scomparsa della donna nell’educazione, nel mondo scientifico e politico, in quello intellettuale. Le donne sono cancellate dalle stanze del comando, o comunque sono in netta minoranza. E se il cambiamento non avviene a livello culturale, bisogna farlo per legge: per esempio attraverso le quote rosa. “Contare” è essenziale e rivoluzionario, perché rileva immediatamente il tasso di biodiversità sociale, e quindi di giustizia. Finché le donne non potranno esserci per contare, è essenziale che continuino a “contare” per esserci!».

Le aree semantiche che definiscono le donne sono spesso denigratorie. Qualche esempio?

«Beh, un gruppo di uomini che parla è un “consesso dialettico”, quello di donne un “pollaio” (le giovani donne sono “galline”, e con l’età diventano “cornacchie”). Una donna che esprime le sue opinioni è una “chiacchierona, linguacciuta, pettegola, petulante”. Se le esprime con troppa convinzione è “frustrata” o “acida”. Oppure una “pasionaria”, o una “femminista”. Se crede in ciò che dice e lo rivendica con forza: “Vuole sempre avere ragione”. Esattamente come un uomo quando crede in quello che dice, oserei dire».

E sul lavoro c’è l’evergreen: «Brava e pure mamma».

«Intanto, anche se le donne fanno qualcosa di importante sono sempre definite: “Le ragazze”. Oppure vengono chiamate per nome: “Kamala”, per esempio. L’uomo laureato è “il dottor”, la donna rimane spesso: “signora” o “signorina”. Siamo sempre trattate da mascotte o da dilettanti allo sbaraglio. Rimaniamo eterne apprendiste. Altri esempi di narrazione che ci danneggiano? Gli uomini sono razionali, le donne relazionali. Gli uomini fanno le cose per un perché, le donne per un per chi. Le migliori, poi, sono le mamme. La donna potente, se è mamma, fa meno paura al mondo maschile. Quella che invece sceglie di non avere figli, diventa la virago della canzone di Roberto Vecchioni: “Stronza come un uomo, sola come un uomo”».

Altra frase comune: «Voi donne siete le peggiori nemiche delle altre donne».

«Si insegna alle donne fin da piccole a diffidare delle altre, si incoraggia la competizione. E quando diventiamo adulte, l’unico potere che il patriarcato ci riconosce come legittimo è quello che ci concede. Il mondo maschile premia le donne di buon carattere, docili e accondiscendenti. La “eletta” è il loro baluardo. Questo ologramma di donna blinderà ogni critica, è il loro migliore cane da guardia. Le donne che ottengono potere e favori dagli uomini sono le alleate migliori del sistema».

Parli di cultura dello stupro. Parte anche da comportamenti apparentemente innocui?

«Nel libro cito l’esempio di Bruno Vespa che nel 2010, nel consegnare il Premio Campiello a Silvia Avallone, pregò la telecamera di “inquadrare la bella scollatura” della scrittrice. Le donne che criticarono quel gesto vennero definite “bacchettone”. In sintesi la cultura dello stupro è quella che “romanticizza” la molestia, facendola passare per un complimento. Se ci danno una pacca sul sedere o ci fanno apprezzamenti pesanti, noi dobbiamo essere sorridenti e grate di essere oggetto di attenzione. La conclusione logica e pericolosa diventa: l’uomo violento è un uomo esasperato dal nostro rifiuto».

Michela Murgia: come convivi con gli attacchi di chi non condivide le tue battaglie?

«Per ogni cento che mi insultano, mille mi difendono. Prima fra tutti la mia numerosa community social. Ma difendere un personaggio pubblico è facile. Il problema è difendere le donne nella vita reale. Le donne hanno paura delle reazioni e del giudizio maschile. Gli uomini temono di esporsi, spaventati dal giudizio del “branco”».

Cosa pensi delle nuove avanguardie femministe?

«Le nostre madri hanno fatto fatica a passarci il testimone. Noi possiamo farlo con le attuali ventenni. Molte sono bravissime, portano messaggi importanti nella società civile, anche attraverso i social network.Al contrario degli uomini, noi donne abbiamo fatto un lungo percorso comune. E abbiamo acquisito un vocabolario che ci unisce. Quindi, per il futuro sono ottimista”.

Di Eleonora Molisani