Intervista a Viviana Mazza su Ragazze rubate – storia delle rapite da Boko Haram

31 maggio 2016

Con la sua bimba di quattro mesi tra le braccia è volata nella capitale Abuja dal presidente Buhari, che l’ha mandata a prendere con il suo aereo personale. Un incontro commovente, che si è concluso con la promessa che continuerà gli studi. È Amina, 19 anni, una delle studentesse rapite da Boko Haram nel dormitorio della scuola di Chibok, in Nigeria, la notte del 14 aprile del 2014.

Insieme a lei, il gruppo integralista che da anni mira a imporre la legge islamica nel Paese più popoloso dell’Africa, aveva trascinato via 275 ragazze tra i 16 e i 20 anni. Nei giorni successivi all’agguato, 57 di loro erano riuscite a fuggire. Solo due video di pochi minuti – uno del 2014, l’altro di qualche settimana fa – a testimoniare che le studentesse ancora nelle mani dei terroristi sono vive. E il 18 maggio scorso la notizia clamorosa: al confine tra Nigeria e Camerun è stata ritrovata lei, Amina Ali. Vagava sotto choc con in braccio la piccola Safiya, figlia di un miliziano di Boko Haram.

Il ritorno a casa di Amina è finalmente una buona notizia dopo anni di buio. Perché nonostante il clamore sollevato della campagna Bring Back Our Girls, lanciata dai genitori delle ragazze e diventata virale in tutto il mondo, delle studentesse di Chibok si è parlato sempre meno. Per ricordarle e dare loro un volto, la giornalista del Corriere della Sera Viviana Mazza, insieme a Adaobi Trincia Nwaubani del New York Times, ha scritto Ragazze Rubate (Mondadori, € 15). L’abbiamo intervistata per parlare anche del destino delle studentesse tenute ancora prigioniere nella foresta di Sambisa.

Perché avete deciso di raccontare questa storia?
«In onore delle tantissime donne rapite da Boko Haram: dal 2009 a oggi sono almeno 2000. Volevamo che i lettori si rendessero conto che sono persone e non numeri, tutte diverse, ognuna con i propri sogni. Abbiamo usato le testimonianze di quelle che in questi anni sono state liberate dall’esercito nigeriano e per le studentesse di Chibok i racconti delle famiglie, che ancora sperano di riabbracciarle».

Che cosa succede alle ragazze nella foresta di Sambisa?
«Oltre alle conversioni forzate – sono in maggioranza cristiane -, le violenze sessuali e la fame, subiscono gravidanze mirate a partorire futuri jihadisti, come è successo ad Amina. Molte bambine e adolescenti tra i 7 e i 17 anni vengono addestrate a tenere le bombe sotto le ascelle e a farsi esplodere in moschee, mercati, villaggi e campi profughi: negli ultimi due anni ci sono stati 105 attentati suicidi commessi da donne. Le ragazze rubate vengono usate anche come strumento di propaganda per terrorizzare la popolazione. Amina ha raccontato che almeno sei delle sue compagne di scuola sono morte, assassinate o di parto».

“Nella foresta dobbiamo frequentare le lezioni di Corano, dove stiamo attente come discepole. Cuciniamo e puliamo. Nel tempo libero stiamo zitte come pietre. Stanotte è il turno di Amina. Lei grida: No, no, per favore! Noi altre restiamo sdraiate e in silenzio, fingendo che le nostre orecchie siano sorde. Le lacrime mi congelano il cuore, e tutto il dolore sgorga come una cascata. Sono diventata una maestra nell’immaginare di essere altrove mentre loro fanno quello che desiderano con il mio corpo”.

La situazione nel Paese è ancora drammatica…
«Sì, nel nord-est della Nigeria lo è ancora. Questo è quello che mi ha raccontato Semo, che aveva 10 anni quando è stata rapita: “Li ho visti con i miei occhi entrare nelle case e uccidere gli uomini: sgozzandoli, sparando oppure bruciandoli vivi. Un giorno noi ragazze eravamo al fiume a prendere l’acqua: ci hanno accerchiate. Dal nostro villaggio di Gova ci hanno portate nella foresta di Sambisa. Ci tenevano in capanne di lamiera, ci insegnavano il Corano. Ci davano da mangiare riso, mais o patate dolci. Poi, di notte prendevano alcune ragazze più grandi, le riportavano solo al mattino. Io piangevo e loro mi chiedevano perché, ma restavo in silenzio. Pensavo ai miei genitori”. Anche dopo la loro liberazione, spesso le ex prigioniere di Boko Haram e i loro figli vengono visti con sospetto dalle loro comunità. Il ritorno non è semplice, che siano cristiane o musulmane. “Le riprenderemo con noi ma non senza sospetti: forse la loro personalità è cambiata”, mi disse un uomo. E aggiunse: “Se sono incinte, sarebbe meglio che abortissero”. Altri uomini mi hanno detto chiaramente che anche le loro mogli o sorelle, se tornassero, non verrebbero più accolte nello stesso modo nelle loro comunità».

«C’è l’uomo mascherato, mio marito, che si mette il cappuccio nero, mi dà gli ordini e mi fa vedere sul computer le immagini in cui gira abbaiando ordini e tagliando gole, facendomi desiderare che ogni singolo membro di Boko Haram bruci per sempre nell’inferno. Non lascia mai che i suoi occhi incrocino i miei, neanche quando è sopra di me. Spero solo che il bambino che porto in grembo sia femmina. Non voglio un maschio che cresca per essere un tagliagole come suo padre”.

Eleonora Molisani @emolisani