11 dicembre 2019

Marco D’Amore: «Ho bisogno di fughe. E di adrenalina»

 

Marco D’Amore è un terremoto. Come il suo Ciro Di Marzio in Gomorra. Che ha voluto “resuscitare al cinema” con il film “L’immortale”, ora nelle sale

«Questo film è bellissimo! Chi non va a vederlo non sa cosa si perde». Marco D’Amore lo dice ridendo, ma è serio. E fiero. Il 38enne attore casertano lanciato dal ruolo di Ciro nella serie Gomorra (Sky) ha voluto scavare nella vita del suo personaggio andando oltre il piccolo schermo, sfidando se stesso anche come narratore e regista.

L’immortale, ora al cinema, racconta a tutti, anche a chi non conosce la fiction ispirata al romanzo di Roberto Saviano, la storia di un grande protagonista. Partendo da una sorpresa (già nota a molti): Ciro Di Marzio non è rimasto “ucciso” come sembrava alla fine della 3a stagione e ricomparirà nella 5a, ora in lavorazione.

Sarà proprio questo film, primo esperimento di cross-over tra cinema e tivù, a raccontare cosa gli è successo, creando un ponte tra due stagioni televisive e due pubblici diversi, quello delle sale e quello dei salotti. La schiettezza napoletana lo rende simpatico anche quando mostra tutto il suo orgoglio: «Non ho mai peccato di falsa modestia… ma sono capace di bastonarmi tanto quanto di lodarmi».

Non temi di restare imprigionato in Gomorra?
«Al contrario, un personaggio così è un privilegio raro, un regalo… magari tra 10 anni farò il pizzaiolo».

Questa sì che è falsa modestia…
«Invece non si può sapere. Mi sono sempre successe cose imprevedibili, anche perché sono irrequieto, super competitivo. Sempre in cerca di adrenalina».

Hai punti in comune con Ciro?
«Siamo coetanei… e tellurici. Lui aveva 21 giorni quando c’è stato il terremoto in Campania, nel 1980, difatti è “l’immortale”. Io ero nella pancia di mia madre, che correva fuori casa per salvarsi. Per Ciro il terremoto è una metafora: vive nelle macerie, anche sentimentali».

Mentre tu sei vulcanico…
«Quando sono tranquillo è segno che qualcosa non va. Sono dei Gemelli, e sono scisso. Da un lato tengo alla normalità della vita in provincia, con la mia ragazza, le abitudini famigliari. Dall’altra ho ambizioni e desideri che mi spingono via. Mia madre voleva che mi laureassi, ma a 18 anni sono partito per fare l’attore. Non mi fermo mai. E non mi accontento».

Per questo hai ideato questo film tra cinema e tivù?
«Già, un azzardo. Ho voluto raccontare Ciro nella sua umanità, con ricordi d’infanzia e flashback che nel linguaggio lucido e presente della serie tivù, e nella cifra del regista Stefano Sollima, non ci sono. È un racconto napoletano fatto di calore, il punto di vista di un bambino con tutte le sue lacerazioni. La grammatica di Gomorra c’è, ma qui ci si cala nei sentimenti».

Il bambino che lo interpreta nell’infanzia ti somiglia?
«Giuseppe Aiello è identico a me da piccolo. L’ho trovato a Scampia e ha tutte le carte per fare l’attore: comprensione, guizzo… un fenomeno! Per lui recitare sarebbe la possibilità di un destino diverso».

E per te cosa rappresentava?
«I miei genitori mi hanno trasmesso la passione per il teatro, il cinema, la lettura. A un certo punto quella passione si è presa tutte le mie energie».

Tuo nonno faceva l’attore a teatro, in sceneggiati tv e con registi come Nanni Loy. È stato il tuo mito?
«Totalmente. Quando è morto abbiamo trovato le videocassette di tutte le sue fughe dalla famiglia: andava a raccontare barzellette e poesie, di nascosto dalla nonna e da tutti noi».

Se dovessi fuggire, tu dove andresti?
«Il mio rifugio si chiama Gabiano, è un paesino del Piemonte dove vive il mio socio e amico, Francesco Ghiaccio. Un cocuzzolo con 150 abitanti. Ci andiamo insieme per staccare, riflettere. La mia ragazza è indipendente quanto me. Però a volte scherzando mi dice: “La tua vera fidanzata è Francesco”».

Di Valeria Vignale