La valenza del trucco, l’estetica dell’errore e l’importanza dei fallimenti. Achille Lauro si racconta. Con sincerità. Intervista
Ogni volta che intervisto Achille Lauro resto sorpresa dalla sua capacità di aggiungere un punto di vista diverso alle cose e ai concetti più comuni. Abbiamo iniziato la nostra chiacchierata partendo da una collaborazione a venire con Mulac Milano, marchio di cosmesi scelto per il Superstar with Electric Orchestra Tour (i concerti estivi del cantautore di Rolls Royce).
E dal vanesio di fard e rossetti, passando di parola in parola, siamo arrivati all’importanza del ruolo genitoriale («Mi piacerebbe molto» è il commento che Lauro ha fatto quando gli ho detto che secondo me sarebbe un ottimo papà). Questo per dire che a volte ci si sofferma sullo spettacolo, sulle apparenze, dimenticando che le esibizioni possono essere un trucco, al pari del vestito eccentrico o della matita sugli occhi. Mentre a scavare c’è molto di più.
Achille Lauro per Mulac Milano: parlaci di questa collaborazione.
«È stata una scelta spontanea. Abbiamo fatto degli esperimenti, ci siamo trovati bene, sono ragazzi giovani, un bel team. C’è l’idea di fare qualcosa di più visto che da qualche anno utilizzo prodotti di scena per i miei spettacoli. Non posso dire molto ma sarà una bella collaborazione».
Hai scelto i loro prodotti per alcune date del tour che stai portando in giro, tra cui Milano e Roma.
«Il trucco è qualcosa che dà valore allo spettacolo, come l’abito di scena. In quanto artista sei libero di scegliere come mostrarti alle persone. Ma la stessa cosa vale anche per le donne che ogni mattina possono decidere come presentarsi».
Hai mai pensato che la parola trucco in italiano vuol dire anche finzione…
«In generale il trucco è legato al mondo dello spettacolo, alla rappresentazione. Ma può significare l’essere diversi per una sera, il voler cambiare. Ti permette non solo di essere una donna più bella, ma di trasformarti in più donne differenti. È come se dicessi: oggi sono come voglio essere e non come sono in assoluto».
Parlando di rossetti ci si lega al concetto di bellezza. Cosa pensi di questa parola?
«Per me la bellezza è come la giovinezza, qualcosa che va e che passa. E non la considero come gli standard a cui siamo stati abituati perché secondo me è bello ciò che è originale, e non può essere catalogato nell’ordinario. La bellezza è il difetto, guarda come sono io e da dove vengo. I nostri artisti migliori hanno una voce imperfetta e io trovo che la bellezza sia proprio quella cosa lì».
Cioè?
«La bellezza è la ricerca estetica dell’originalità, ma io inseguo il difetto. Io vivo del difetto. Su questo tema ho fatto una bellissima chiacchierata con Alessandro Michele (direttore creativo di Gucci, ndr): anche nella moda si sta andando verso l’esaltazione dell’essere, dell’imperfezione. Mi viene in mente la campagna dei rossetti Gucci in cui le modelle non avevano dei sorrisi standard. Lo stesso nell’arte. Conoscendo la mia concezione del fare musica e come sono fatto io, non potrei mai esaltare la bellezza intesa come perfezione. Mi viene in mente Lucio Battisti: molti dicevano che non avesse una bella voce eppure è uno dei massimi esponenti della musica italiana di sempre. Oppure ad Anna Oxa a Sanremo: era una figura un po’ androgina, non dico che non fosse bella, ma era unica, con un immaginario diverso, discordante».
Che cos’è l’arte per Achille Lauro?
«Per risponderti ripeto una cosa che ho già detto al concerto di Milano quando abbiamo presentato il progetto NTF (arte generativa a scopo benefico, ndr): l’arte è un gesto che prova l’esistenza dell’essere umano. Per me si trova ovunque: nella musica, nei pensieri, nelle parole, nei discorsi con le persone. Qualunque manifestazione dell’essere umano è arte, dal pensiero fino all’agire e al creare. Ma voglio aggiungere una cosa che riguarda il nostro lavoro. Non sta a noi dirlo, ma se un giorno qualcuno pensasse che la mia musica è artistica ne sarei contento, poiché dietro c’è un gran lavoro. Da solo non me lo dirò mai».
Ti consideri una persona umile?
«L’umiltà è alla base dei rapporti umani e soprattutto è alla base del mio lavoro. Molta gente pensa che io abbia avuto successo e che quindi sia soltanto un montato, invece io mi considero un maniaco del dettaglio e un grande lavoratore, perché ogni volta devo riconfermarmi con me e con il pubblico, devo riuscire a superarmi, devo portare la mia musica a un livello successivo, di qualità, competitiva anche all’estero. Devo avere un respiro più ampio per cui sono sempre super critico con me stesso. Resto umile e tengo i piedi per terra perché sono loro che mi fanno arrivare più lontano».
Cerchi la conferma e il cambiamento. Non vanno in contrasto?
«No, perché la conferma non è cercare l’approvazione del pubblico, ma riuscire a fare sempre qualcosa di diverso, dimostrare che c’è una crescita. Da due anni a questa parte ho fatto scelte fuori moda: penso a 1920 e 1990 (album di cover pubblicati nel 2020, ndr). Non sono dischi commerciali, se avessi voluto stare al passo coi tempi avrei fatto il reggaeton. Io invece mi immagino come un artigiano che cura il suo prodotto e ricerca la qualità. In ogni lavoro c’è un io diverso, sento di avere cento personalità da esprimere e coerente con questo sentimento cambio costantemente la scrittura, l’arrangiamento, l’acustica».
Se fossi nei panni di un altro Achille Lauro ti sembrerebbe un ragazzo fortunato?
«Assolutamente sì, sono stato graziato. Ci sono molte persone più brave di me che non hanno avuto la possibilità di fare questo passo, non hanno avuto il coraggio di mettersi in gioco e anche di farsi criticare. È brutto pensarla così, ma nella comunicazione si creano bolle dove si viene solo giudicati. Guarda i social: la foto pubblicata su Instagram diventa subito un esame, espone i ragazzi al giudizio. Io sono contrario a questa bolla, i ragazzi devono essere spronati a sbagliare, dal fallimento nascono grandi cose».
Che consiglio daresti ai genitori o cosa vorresti avessero detto ai tuoi?
«Abbiamo il dovere di prenderci cura dei nostri figli ma non di decidere chi diventeranno. È molto difficile ma fare il genitore vuol dire amare un ragazzo e accompagnarlo nella strada che lui si sceglie: chi amare, chi diventare e cosa fare nella vita. Perché il lavoro ci definisce, fa di noi quelli che siamo. Il problema della nostra generazione è che non siamo stati educati a capire cosa amiamo, se potessimo fare semplicemente quello che ci piace non saremmo incasellati in nessuno spazio.
Escludendo la necessità, come i nostri coetanei che hanno avuto dei figli da giovanissimi e devono lavorare per mantenerli, a chi può direi di seguire la sua vocazione anche a discapito del guadagno. Questo dovrebbe essere l’insegnamento delle scuole, dei genitori: fare quello che sia ama. Fare, sbagliare. E rifare. Quando arriverò agli stadi lo dirò a tutti: per riuscire in quello che vuoi devi prendere tante porte in faccia. Imparare a continuare, perché il successo non è solo talento, ma tempo e dedizione».
C’è chi si lamenta di avere poca gente ai concerti.
«Io mi sono conquistato i fan rischiando, come quando a Sanremo mi sono vestito da San Francesco. È stata una scommessa, potevo uscirne distrutto. E ho fallito tantissime volte: ho fatto concerti con dieci persone e ho capito che è più difficile che averne davanti 25mila, perché lì devi suonare e intrattenerli uno per uno».
Com’è questa estate in tour per Achille Lauro?
«Una stagione grandiosa: una data al giorno, viviamo di notte. Faccio il venditore ambulante, porto la mia musica in giro, è questo il mio sogno».
Parliamo dei pezzi che hai scritto: qual è il tuo gioiello?
«16 marzo e tutti i brani molti intimi sono dei gioielli, ma spezzo una lancia in favore di canzoni che sono state di rottura come Rolls Royce: dirompente, un bel messaggio per il popolo italiano, ha fatto da apripista a un certo modo di fare musica».
Achille Lauro, secondo te cosa non ha funzionato a Eurovision?
«Volevo portare qualcosa di diverso, adatto a quel tipo di spettacolo. Non so cosa non ha funzionato, non conosco i gusti degli altri Paesi. Per me è stata un’esperienza pazzesca e mi faccio lo stesso discorso che farei a un ragazzo: batti la testa che pian piano il buco nel muro si fa, anche se questa volta è andata male».
Di Rachele De Cata – Foto Giulia Parmigiani/Luca D’Amelio
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