Jonathan Bazzi, il poeta della metropoli

08 April 2022

Il suo primo romanzo, Febbre, è arrivato in finale al premio strega nel 2020. Da allora la sua corsa è inarrestabile. Scrittore, attivista, icona delle battaglie di genere, è tornato in libreria con Corpi minori

 

Dalla sestina finalista del Premio Strega nel 2020, al microfono di Verissimo, con Silvia Toffanin, al monologo sulla balbuzie per il programma Le Iene che ha fatto il pieno con l’audience. Il novello re Mida è lo scrittore milanese Jonathan Bazzi, 36 anni. Tutti lo cercano, tutti lo vogliono, perché è un intellettuale capace come pochi di parlare il linguaggio crudo e disincantato della contemporaneità e allo stesso tempo è un’icona pop, una voce fuori dal coro della comunità Lgbt, attivista per le questioni di genere, e collabora con testate nazionali come Gay.it, Vice, The Vision, Il Fatto quotidiano. Nel suo bestseller d’esordio, Febbre, mette a nudo l’infanzia difficile nella periferia di Rozzano, l’omosessualità, la scoperta di essere sieropositivo. Dopo la candidatura della scrittrice Teresa Ciabatti al Premio Strega, non ottiene il podio ma un contratto con Mondadori, che ha appena pubblicato il suo secondo romanzo, Corpi minori, già in vetta nelle classifiche di vendita.

Da Rozzano a Milano. Il passo non è stato breve né poco accidentato…

«Decisamente no, attraverso il mio alter ego racconto i sogni di un ventenne, il suo percorso accidentato verso l’età adulta. Corpi minori è una sorta di midquel di Febbre: prima ho raccontato infanzia e adolescenza difficili e la scoperta della sieropositività, in questo libro il mio corpo a corpo con la crisi del primo quarto di vita negli anni 2000, tra palazzoni di periferia, ossessioni pop e trash della metro- poli, nevrosi delle app di incontri, precarietà materiale ed esistenziale, ricerca dell’amore e di un posto nel mondo».

Il protagonista è vittima e carnefice. Pur di sottrarsi alla sorte è disposto a compromessi e relazioni di comodo.

«Pur di scappare da Rozzano e da una vita ai margini è pronto a tutto, anche a vivere con Pietro, in una relazione di comodo da cui si emanciperà con crudeltà. Mette in pausa il suo desiderio dell’amore romantico per una impostura che gli permette di andare a vivere a Milano, la metropoli che rappresenta una possibilità di emancipazione e realizzazione».

Le periferie sono inesauribili fonti di poesia. Tranne per chi ci abita…

«Rozzano, quando sono nato, era un avamposto del Sud Italia nella pianura Padana, un microcosmo di persone che avevano tanto in comune. Se non eri omogeneo a quel contesto eri emarginato. Io spiccavo per la mia diversità e ho sofferto molto. Ero alla ricerca di un posto in cui mimetizzarmi, per questo ho sempre associato Milano alla realizzazione della mia identità. Così è sta- to e continua a essere per molti».

Nel libro parli di “poetica dei corpi minori”. A che cosa ti riferisci?

«I corpi minori, in astronomia, sono corpi celesti piccoli che gravitano attorno ai grandi. Nel desiderio tutti gravitiamo at- torno a ciò che desideriamo, e questo apre la strada alla sopraffazione, al sopruso dei più forti verso i più deboli. Ma nel romanzo intendo soprattutto la manifestazione del disagio in certe persone con imperfezioni, malattie, guasti. Sofferenza, agguati e assedi della vita lasciano segni fisici, e nell’elabora- re questi vissuti rimangono su di noi i marchi di ciò che siamo stati e che ora siamo».

Il tuo alter ego vive in bilico sul filo dell’inquietudine.

«L’inquietudine esistenziale è una sorta di vocazione per me. Dopo essermi iscritto alle superiori ho lasciato la scuola e mi sono rintanato in casa, la balbuzie mi impediva persino di parlare. Poi ho ricominciato a studiare dopo aver iniziato, a 15 anni, sedute di psicoterapia, grazie ai sacrifici economici di mia madre e mia nonna. Mi sono laureato in filosofia ma i miei sogni hanno continuato a cambiare sempre for- ma. Ho studiato canto, insegnato yoga, mi piacciono l’arte e il fashion, ho cominciato a collaborare con la griffe di moda Valentino. Alla fine ho convogliato tutto nella scrittura, forse la cosa che so fare meglio».

Metti in scena il politically uncorrect. Il tuo è coraggio o provocazione?

«Si tende a parlare delle comunità marginalizzate e gay come soggetti da proteggere, persone sensibili e buone, vittime del sistema. Invece è necessario mostrare la spietatezza delle personalità “queer”: significa restituire loro umanità. Non dimentichiamo che chi nasce in certi conte- sti ha esperienze che assorbe e riproduce. Quando arrivi dai margini covi rabbia e aggressività, spesso sei pronto a tutto. Puoi avere lati parassitari, fraudolenti, traditori, violenti. Desiderio di ottenere agio, guadagni faci- li, notorietà, visibilità, a tutti i costi».

Parli del binge fucking, la ricerca frenetica di sesso sulle app di incontri…

«Per la comunità gay, che ha sempre faticato a trovare luoghi sicuri, la possibilità di conoscere gente in rete senza esporsi direttamente, ha fatto trovare un luogo clandestino protetto. E il sesso compulsivo non nasce necessariamente per colmare vuoti affettivi, ma per chi è marginalizzato è un modo per affrontare pressioni, stress, ansia. Ho cercato di raccontare senza retorica certe neo-tradizioni di quest’epoca».

Parli della “filosofia del restare”. Un atto quasi rivoluzionario in amore.

«Il protagonista incontra Marius, l’amore della sua vita. Ma poi la passione sfuma e si trasforma, facendolo cedere alla tentazione di mollare. Invece vince la filosofia del rimanere, capire che un sentimento si trasforma ma c’è il modo di restarci dentro se prevale il desiderio di stabilità affettiva. Con Marius, il mio compagno, ci legano l’amore e questo desiderio».

La famiglia è sempre, insieme, una condanna e una salvezza?

«Sì, io ho avuto una famiglia disfunzionale, ma il rapporto con i familiari è sempre ambivalente. Sono molto legato alle mie nonne, mia madre mi ha insegnato, come dico anche nel libro, diversi “stili di com- battimento”, avrei voluto stare più tempo insieme a mia sorella, su mio padre dico che non credo che fecondare un uovo significhi diventare un buon padre, e nessuno merita di essere sputtanato a vita per non esserlo stato».

Social network: sono ancora importanti ora che ne hai meno bisogno?

«Avendo sempre avuto un rapporto incidentato con la parola detta, i social per me sono stati fondamentali. A 20 anni, incapace di agire direttamente sul mondo, mi hanno dato una modalità di azione protetta. Ho cominciato a farmi conoscere a distanza di sicurezza e a raccontarmi. Da lì, e da chi mi leggeva e mi apprezzava, è nato tutto questo».

Di Eleonora Molisani –  foto Claudio Sforza